Un film denuncia di Michele Riondino

UN FILM CHE RACCONTA UNA VICENDA CHE TUTTI DEVONO CONOSCERE
>>>LO TESTIMONIA ANCHE QUESTO STUDIO DEI RICERCATORI DELL’UNIVERSITA’ DI BARI.<<<

Osservazioni cliniche su un peculiare caso di mobbing aziendale

Ecco l’Articolo originale redatto da R. CATANESI – L. SOLEO* – L. AMERIO – A. BASSO* – G. TROCCOLI – V. CASTALDO** – I. GRATTAGLIANO – Sezione di Criminologia e Psichiatria
Forense, DiMIMP, Università di Bari; * Sezione di Medicina del Lavoro, – DiMIMP, Università di Bari; ** Dirigente Medico, INAIL Bari
Osservazioni cliniche su un peculiare caso di mobbing aziendale.

OBIETTIVI

L’esperienza che presentiamo si riferisce a fatti verificatisi tra il 1997 ed il 1998 e che furono oggetto di specifica osservazione pluri-disciplinare a partire dal luglio 2000.

A tale periodo infatti si collocano le prime segnalazioni di lavoratori di una importante industria siderurgica pugliese – che denunciavano disturbi psichici reattivi ad un patogeno e del tutto peculiare contesto lavorativo.

La vicenda, che ebbe grande clamore mediatico e che ha condotto alla prima condanna penale in Italia seguita ad un’azione mobbizzante aziendale, indusse alcuni lavoratori ad inoltrare istanza di riconoscimento di malattia professionale all’INAIL per patologia conseguente ad azione mobbizzante.

Gli avvenimenti interessarono un numero non precisato di soggetti, stimato in sede di giudizio penale in circa 70. Di questi, 47 persone furono rinvenute, in occasione di sopralluoghi effettuati dagli Enti Istituzionali di controllo, allocate in una struttura immobiliare interna allo stabilimento, la cosiddetta “palazzina LAF”,
una volta destinata ai laminati a fuoco ed all’epoca dei fatti totalmente spoglia, priva finanche di suppellettili.

Una breve presentazione è necessaria per comprendere il contesto dei fatti. La citata azienda è tra i più importanti insediamenti industriali del settore metalmeccanico d’Europa, in cui sono attualmente occupati circa diecimila dipendenti, di cui 2.000 impiegati ed 8.000 operai.

Lo stabilimento siderurgico di Taranto - Credits Foto Max Perrini

Nata a cavallo degli anni ’60/’70 ad iniziativa statale, si sviluppò su un terreno socio-culturale a scarsa caratterizzazione industriale (società costituita prevalentemente da pescatori ed agricoltori), dunque in assenza di un consolidamento storico delle dinamiche proprie di una realtà industriale.

Si deve considerare, inoltre, che la proprietà pubblica dell’azienda – protrattasi per oltre un trentennio – inevitabilmente aveva lasciato una forte caratterizzazione delle dinamiche aziendali e che, di conseguenza, il passaggio alla proprietà privata determinò difficoltà e “frizioni” tra contrapposti modelli di gestione. I fatti in esame seguirono di pochi mesi l’assunzione della proprietà privata dell’azienda. 

Sul finire del 1997, nei confronti di un ampio gruppo di lavoratori appartenenti alla qualifica di impiegati
venne attuata una complessa sequenza di eventi che può così essere schematizzata:
1. inizialmente ciascun lavoratore venne contattato da rappresentanti del vertice aziendale ed informato di trovarsi nella posizione di “esubero”; quindi veniva prospettata la possibilità di transitare nel ruolo di operaio (passando da un settimo livello impiegatizio ad un terzo livello operaio) sotto la forma della “novazione”. Taluni accettarono, altri no; non è dato conoscere quanti furono coinvolti in tale fase;
2. in presenza di mancata adesione a tale proposta gli impiegati erano trasferiti in una struttura (la
“palazzina LAF”, già adibita ad attività industriali successivamente smantellate) non attrezzata a
consentire alcuna attività lavorativa.

Difatti a nessuno dei lavoratori veniva affidato impegno lavorativo. La collocazione presso la “palazzina”
comportava effetti economici per mancata partecipazione ad indennità legate all’effettiva partecipazione alle attività aziendali.

L’invio nei locali avveniva senza alcuna anticipazione, con immediatezza (in alcuni casi senza nemmeno consentire al lavoratore di liberare la sua precedente stanza), senza comunicazione scritta, senza formalizzazione di alcun incarico di lavoro, né l’assegnazione ad alcuna attività operativa, ma con obbligo
di permanenza e totale abbandono del personale all’inerzia.

Foto Credits dal profilo FB di Michele Riondino

La giornata di “lavoro” non era scandita da alcuna operazione e gli impiegati trascorrevano il proprio tempo passeggiando nel corridoio, leggendo il giornale. Fu tale l’impatto prodotto fra i lavoratori che i non coinvolti avevano finanche il timore di parlare con “quelli della LAF”, temendo di poter in qualche modo essere trascinati nella vicenda.

Difatti, i lavoratori trasferiti alla palazzina non si potevano allontanare – personale di sicurezza sorvegliava che ciò non accadesse – mentre nello stabile vi era un solo telefono situato all’ingresso. L’unico momento in
cui era consentito ai lavoratori di uscire temporaneamente dalla palazzina era la pausa pranzo, orario in cui potevano raggiungere la mensa aziendale e dove, una volta entrati, erano tenuti in disparte, non avvicinati dagli altri colleghi, anche da quelli con i quali in precedenza vi era un rapporto confidenziale per il timore di poter subire lo stesso destino.

Lo stabilimento siderurgico di Taranto - Credits Foto Max Perrini

Il clima di isolamento relazionale, di esclusione divenne assoluto, ed in questo contesto si realizzarono alcuni episodi di aggressività, crisi di agitazione psicomotoria, comportamenti inadeguati o pericolosi sino a minacce di gesti autolesivi. Alcuni lavoratori furono osservati mentre scalciavano oggetti o pareti, colpivano il muro con testate, mentre uno di essi, in una occasione, salì sul tetto della palazzina minacciando per diverse ore di lasciarsi cadere nel vuoto;

Foto Credits Maurizio Greco dal profilo FB di Michele Riondino

3. durante la permanenza nella struttura, che si prolungò in alcuni casi sino a quasi un anno, si ripetevano con sistematicità e periodicità colloqui tra un responsabile aziendale ed i singoli impiegati, nei quali veniva ribadita la generica offerta di “novazione”, senza ulteriori precisazioni. I colloqui avvenivano con modalità descritte con espressioni di forte caratterizzazione emotiva (“momento drammatico”, in cui il responsabile aziendale si
comportava da “dittatore”, da “superuomo”).

I fatti sin qui richiamati sono stati accertati nel corso di un procedimento penale (sentenza n. 2948/01) dalla 2° sezione penale del Tribunale di Taranto che, nel dicembre 2001, condanna i responsabili aziendali e della proprietà per il reato di violenza privata.

La condanna è stata confermata in secondo grado (Corte Appello Lecce, 10.8.05) e, del tutto recentemente, anche in Cassazione. 

Rimozione Insegna ILVA dalla palazzina direzione dello stabilimento siderurgico di Taranto - Credits Foto Max Perrini

L’interesse di studio, in un simile caso, fonda su molteplici ragioni. È esperienza comune che nei casi di
“mobbing” ciò che viene registrato sia solitamente il punto di vista dell’intervistato, ciò che egli ritiene di
aver sofferto; si ascoltano le sue ragioni, si registra la sua sofferenza ma manca la possibilità di verificarne
il fondamento, di ascoltare la controparte, non per emettere giudizi, ben inteso, ma solo per delineare
meglio esistenza e qualità dell’azione mobbizzante, per oggettivare la dinamica psicologica, che solitamente
viene esaminata, dal clinico o dal medico-legale, in una prospettiva unilaterale, ovvero solo da parte della presunta vittima.

Presunta perché non abbiamo alcuno strumento – solo di rado accade – per ragionare sulla fondatezza delle lamentele, sulla affettiva ricorrenza della dinamica descritta, dei provvedimento adottati, dei demansionamenti riferiti. In questo caso, invece, l’irrompere della Magistratura nella vicenda consente di rendere “certo” ciò che solitamente è solo soggettivamente riferito, restituisce sostanza al racconto, consente di stimare e quantificare il ruolo avuto dalla azione mobbizzante – che è stata coincidente con la strategia aziendale – sullo psichismo individuale.

La seconda ragione è che raramente viene offerta a clinici la possibilità di osservare un gruppo di persone
sottoposte alla stessa azione mobbizzante, con caratteristiche identiche in uno stesso arco di tempo;
delle tre variabili in gioco in ogni caso di reazione psichica ad evento (qualità dell’evento-personalità ricevente-
effetti clinici) in questo caso possiamo considerare eguale il ruolo avuto dalla prima, concentrando  dunque la nostra attenzione sulle altre due, con indubitabile effetto di chiarezza.

METODI

Vista la peculiare situazione di osservazione, e potendo stimare come certo sul piano dell’esistenza ed
indiscutibile su quello della efficienza causale l’azione mobbizzante, abbiamo concentrato la nostra attenzione
sugli effetti prodotti sullo psichismo e sulla modalità di elaborazione dell’evento, così come ci è stato possibile desumere da analisi clinica (attraverso colloqui) e testistica, utilizzando allo scopo il test di Rorschach.
L’analisi del campione – giunto alla nostra osservazione per la valutazione delle conseguenze prodotte
dal trauma patito – è stato affrontato con un gruppo di lavoro multi-disciplinare composto da medici del lavoro, psicologi, psichiatri forensi e medici legali.

Lo stabilimento siderurgico di Taranto - Credits Foto Max Perrini

In questa sede presentiamo le valutazioni cui il gruppo è giunto su alcuni aspetti strettamente clinici, ovvero tipo di disturbo manifestato, ruolo della personalità pre-morbosa, dell’organizzazione strutturale di personalità, di come le parti più “interne” abbiano potuto plasmare la risposta all’evento. 
Sul piano metodologico possiamo aggiungere che inizialmente venivano raccolti tutti i dati relativi allo scenario lavorativo, alle mansioni svolte prima e dopo l’inserimento in “palazzina LAF”, alle azioni messe in atto ed ai vissuti del lavoratore in relazione ad esse; è stato quindi condotto un esame neuro-psichiatrico,
ragguagliato da una indagine Rorschach, nella prospettiva di verificare qualità ed entità dell’eventuale
danno all’integrità psichica configuratosi attraverso il mobbing, ma anche di riflettere sull’organizzazione
strutturale di personalità dell’individuo.

RISULTATI

Il campione è formato da 25 lavoratori che avevano inoltrato istanza di riconoscimento di malattia professionale all’INAIL. Va subito detto che lo studio delle variabili prese in considerazione delinea un insieme
con larghi tratti di omogeneità.

Si trattava, in primo luogo, in larga prevalenza di lavoratori in età avanzata (88% dai 50 ai 59 anni), con solo il 4% dai 30 ai 39 e l’8% dai 40 ai 49. Quasi tutti maschi (96%), avevano grado di istruzione superiore (76%; 4% licenza elementare, 4% licenza media inferiore, 8% qualifica professionale, 8% laurea), erano coniugati (solo l’8% era separato). Il profilo familiare non presentava, sino al momento dell’evento, particolari motivi di sofferenza: in soli 2 casi emergeva una grave problematica familiare (patologia cronica del coniuge), in un caso conflittualità preesistente alle vicende lavorative descritte.

Negativa l’anamnesi anche per problemi psichici o comunque per sofferenza psicologica pregressa; da rilevare che il servizio militare di leva era stato assolto dal 60% dei soggetti e che solo in due casi vi era stata dispensa ma per patologia fisica, nessuno per patologia psichica.

Lo stabilimento siderurgico di Taranto - Credits Foto Max Perrini

Dal punto di vista lavorativo tutti avevano una posizione stabile, erano stati assunti dalla Azienda in questione
da oltre dieci anni, la maggior parte di loro addirittura da 30 anni. Vivevano una realtà lavorativa descritta come soddisfacente sia per il trattamento economico, sia per le mansioni raggiunte nel tempo.
Avevano difatti ottenuto avanzamenti di carriera nel 68% dei casi e, nel 48%, era stata segnalata gratificazione
lavorativa nel periodo precedente i fatti.

Come si accennava sembrò giocare un ruolo decisivo nel determinismo degli eventi la svolta determinata
dalla privatizzazione dell’Azienda, quando ad un clima caratterizzato da grande carico lavorativo e responsabilità ma anche gratificazione personale, ne seguì altro caratterizzato da sensibile aumento di
conflittualità. Contrasti con i superiori gerarchici furono riferiti difatti nel 28% dei casi, per lo più con
nuovi dirigenti o capi-turno nominati nel clima di  riorganizzazione aziendale.

Nel 36% dei casi nei  confronti dei lavoratori fu adottato un certo grado di isolamento sul posto di lavoro; demansionamento sarebbe occorso nell’8%, dequalificazione in analoga percentuale. La cosiddetta condizione della “scrivania vuota” – ovvero relegare il lavoratore a trascorrere il proprio orario di lavoro in un ambiente privo di strumenti, compiti e mansioni – si sarebbe verificata solo in un caso. Tutto ciò, naturalmente, prima del
trasferimento dei lavoratori nella “palazzina LAF”, ove è stato appurato che tali caratteristiche erano parte
integrante del clima e del “trattamento” lavorativo.

Il tempo di permanenza nella “palazzina LAF” fu stimato tra 9 e 12 mesi nel 72% dei casi, da 4 a 8 mesi
nel 12%; nel 12% è stato limitato ad un periodo compreso fra 2 e 4 settimane ed in un caso fra 1 e 2 settimane.
Successivamente alla chiusura giudiziaria della “palazzina LAF” furono adottati provvedimenti diversi,
fra i quali prevalse la cassa integrazione (68%), ed in seguito periodi di ferie forzate (36%), mobilità (12%)
ed infine pensionamento anticipato, accettato dai lavoratori nel 52%. Altro dato di rilievo è che il 24%
dei lavoratori andò incontro a serie difficoltà economiche in seguito a tali vicende, dovute soprattutto al
perdurare della condizione di cassa integrazione, con ripercussioni anche sull’assetto psichico dei lavoratori
coinvolti più a lungo in tale condizione.

Nella maggior parte dei casi (80%) l’esordio dei disturbi psicopatologici avvenne già durante il periodo
di permanenza in “palazzina LAF”. Nei restanti l’insorgenza fu successiva, concomitante al comparire
delle difficoltà economiche derivanti dalla cassa integrazione; soltanto in un caso i disturbi sarebbero
insorti a lunga distanza di tempo (qualche anno) dall’evento.

Quanto agli aspetti psicopatologici, i disturbi più rappresentati furono di tipo ansioso con associazione di
umore depresso (32%); disturbo somatoforme fu riscontrato in analoga percentuale. Disturbo depressivo
fu segnalato nell’8% dei casi. In un caso di depressione con associati sintomi di natura ansiosa vi è stato
abuso di alcol quale “reazione” al disagio interiore.
Tutti i lavoratori richiesero intervento medico: al servizio psichiatrico territoriale si rivolse il 72% dei casi,
il 16% a specialista psichiatra privato e l’8% al Medico di Medicina Generale. Il trattamento medico
assunse carattere continuativo nel 40% dei casi (nel 32% per 1-2 anni), trattamento descritto come saltuario
o discontinuo nel 60%.

All’epoca della nostra osservazione venne diagnosticato un disturbo dell’adattamento con ansia ed umore depresso nel 48% dei casi, un disturbo somatoforme nel 32%, un disturbo d’ansia nel 16% e un disturbo
depressivo nel 4%. Dall’epoca di insorgenza il 52% aveva presentato un decorso in miglioramento,
il 36% era apparso stazionario ed il 12% riportava un peggioramento clinico. Nel 64% dei casi fu evidenziata
marcata perseverazione ideativa sulle vicende lavorative descritte, difficoltà a trovare risorse sufficienti
ad elaborare l’accaduto ed a superarlo, nonostante per molti di essi la vicenda fosse “chiusa” da
tempo e fossero già in pensione; nel 76% dei casi emerse la persistenza di vissuti di squalifica, riduzione
della autostima strettamente connessa alla situazione ed in tre lavoratori su 4 venne riscontrata marcata
labilità emotiva.

Relativamente all’organizzazione di personalità in nessun lavoratore venne identificato un disturbo nosograficamente delineabile, ma in quasi tutti i lavoratori (92%) vennero rilevati tratti di rigidità strutturale,
in special modo delle capacità di adattamento.

Il tema della personalità pre-morbosa, nei casi di mobbing, è stato da tempo affrontato 1 2 con punti di
vista anche contrapposti 3. Non è nostro intendimento entrare in questo contesto ma solo segnalare come
in numerose ricerche su campioni diversi di soggetti sottoposti ad azioni mobbizzanti – nei quali il comune
denominatore è la lesione alla propria immagine professionale/lavorativa, l’aver minato le certezze fino
a quel momento acquisite e riconosciute e che contribuivano a costituirne l’identità – emerga il rilievo
di tratti rigidi di personalità. Ad esempio, in un recente studio 4 che ha preso in considerazione 29 casi
di soggetti esposti a mobbing è stata riscontrata una sintomatologia comune caratterizzata da insonnia,
flessione del tono dell’umore e somatizzazione dell’ansia, tale da giustificare in oltre la metà dei casi
una diagnosi di Disturbo d’Ansia Generalizzato.

Ciò che si rileva, peraltro, è che in circa un terzo dei soggetti erano presenti tratti ossessivi di personalità
che in qualche modo potevano limitare le capacità di adattamento.
Naturalmente resta aperta la questione se quell’aspetto di personalità rilevato fosse pre-esistente ed evidente
con analoga espressività clinica, se la sofferenza prodotta l’abbia solo acutizzato o se l’assetto di
personalità, sotto la spinta di una situazione cronicamente sofferente – come per lo più è il mobbing – abbia
presentato qualche modifica. Il problema non è solo di interesse clinico ma ha ampie ricadute medico-
legali, per i potenziali riflessi sul problema del rapporto di “causalità” materiale.
Sulla scorta di queste riflessioni abbiamo ritenuto di procedere ad una valutazione qualitativa dei risultati
ai test di Rorschach a cui sono stati sottoposti i lavoratori;
i dati si riferiscono a 20 test, visto che per esigenze tecniche non è stato possibile sottoporre l’intero
campione di 25 persone a questa tecnica proiettiva.

Il test di Rorschach permette una descrizione globale della personalità in tutti i suoi aspetti: all’interno di
tanta ricchezza si è pertanto reso necessario enucleare solo quegli aspetti che potessero rivestire qualche
utilità per il presente studio.

Il quesito chiave – cioè la distinzione tra elementi originari della psiche ed elementi riconducibili all’evento – difficilmente può essere risolto dalla sola psicodiagnostica: il livello di radicamento di un determinato segno psicodiagnostico di per sé può indicare solo la gravità e la diffusione di una sofferenza nella psiche del soggetto, ma non permette ipotesi circa la “cronologia” della stratificazione.

Abbiamo voluto allora affrontare la questione da altra angolazione, valutando non segni psicodiagnostici
isolati ma costellazioni di segni, le quali rimandano all’articolazione dell’eventuale disturbo, alla sua
“diramazione” all’interno della personalità, alle aree della psiche coinvolte 5. Viene in soccorso, sotto questo profilo, la metodologia di Exner 6 che come è noto rappresenta il tentativo di riportare il Rorschach a ciò che era in origine, cioè un test – come lo definì lo stesso creatore – “di percezione e di comprensione” 7.

Del resto già lo stesso Rorschach aveva sottolineato la possibilità di ampliare l’ottica dello strumento
creando rapporti tra fattori, ad esempio aveva introdotto i due indici del TRI a descrivere la modulazione
affettiva e, di conseguenza, indicare dove la risposta interiore del soggetto si colloca all’interno dell’asse
dinamicità-stabilità.

Nel presente lavoro faremo riferimento ai seguenti indici: Indice Lambda (Exner), Indice D (Exner), Indice
di Egocentricità (Exner), Costellazione Suicidiaria (S-CON, di Exner), Rapporto fra Intramaculari
e TRI.1 (Bohm), rapporto fra F+% e indice di realtà (IR). L’impiego di numerosi indici, a nostro
avviso, permette una strategia di indagine a vasto spettro, nell’ambito della quale possono acquisire rilevanza non soltanto le concordanze ma anche – e per certi versi soprattutto – le discordanze: là dove il
quadro psicodiagnostico sembra improvvisamente registrare dislivelli rispetto al dato clinico e al dato
ambientale, là dove ad esempio indici in qualche maniera complementari offrono risultati opposti, è legittimo ipotizzare che il test stia segnalando un punto di “crisi” o almeno un nodo problematico. E se, nel
campione, tali “crisi” dovessero ripetersi in maniera significativa – questa l’ipotesi di studio – potremmo
ritenere di aver intravisto un elemento non secondario dell’evento-mobbing che stiamo studiando.

Fig. 1. Distribuzione dell’indice Lambda (frequenze). Lambda Index distribution rates.

INDICE LAMBDA 8
Consiste nel rapporto fra la somma delle F ed il totale delle restanti risposte. Descrive il modo in cui il
soggetto utilizza le proprie risorse nell’affrontare le situazioni: valori elevati (> 1,2) indicano un approccio
eccessivamente semplificato, cioè una economizzazione delle proprie risorse affettive. Ciò è tanto più vero quanto più basso è il numero complessivo di interpretazioni
date (< 13). La media per gli adulti non psichiatrici è pari a 0,59 (s = 0,28), cioè si colloca tra 0,31 e 0,87. La Tabella I esprime la distribuzione dei valori di Lambda all’interno del campione. Circa metà dei soggetti (il settore a strisce) presenta valori elevati: ciò significa che all’interno del gruppo esaminato è marcatamente rappresentata la tendenza a gestire l’approccio con il mondo esterno in assetto di difesa dall’invasione dell’emotività. In altre parole, trattasi di persone che, forse a causa di un difficile controllo delle istanze più profonde, tentano in ogni maniera di impegnare il meno possibile l’affettività.

A questi devono essere aggiunti i casi che presentano un valore aumentato di lambda – in nero nel grafico
– correlato a pochissime interpretazioni (il che nel sistema di Exner equivale a non validità del protocollo).
 più consistente, tale da interferire con la espressione di sé: sono soggetti eccessivamente compressi ed inibiti, incapaci di autenticità nelle relazioni umane ed in assetto di perenne difesa dall’ambiente. Non è
escluso che presentino radicali ossessivi. 

INDICE D
Deriva dalla differenza fra la sommatoria del TRI.1 (definito anche ET.1 o EA, con somma ponderata dei
colori) e quella del TRI.2 (o ET2 o es), con successiva conversione in “punti D” secondo specifiche tabelle.
Esprime “quanto le risorse a disposizione (…) vengono diminuite dalla percezione che il soggetto
ha delle richieste degli stimoli della realtà esterna” 8: in altre parole, il punteggio D risulta essere un buon
indicatore del livello di stress. Valori > 0 esprimono buoni margini di capacità di gestione dello stress,
laddove valori < 0 indicano che il soggetto si sente travolto dalle richieste ambientali. Comunque l’esperienza
indica che la maggior parte dei soggetti adulti riporta valori D pari a 0, ponendosi a cavallo fra le due categorie estreme.

Fig. 2. Distribuzione del punteggio D (frequenze). D Index distribution rates

Nel nostro campione (Fig. 2), nessun soggetto presenta risultati evidentemente alterati (< 0) e praticamente tutti si collocano all’interno del trend medio D = 0. Appena 1/4 del campione riporta valori > 0 (valore ottimale). La totalità dei casi, dunque, sembra aver conservato capacità gestionali sufficienti a mantenere il controllo sulle proprie risorse interne, quale che sia la loro qualità e consistenza (“risorse residue”).

INDICE DI EGOCENTRICITÀ
È dato dal rapporto fra la presenza di percezioni riflesse (sia le speculari il cui valore viene triplicato,
sia le cosiddette “risposte doppio”) ed il numero totale di interpretazioni 8. Punteggi aumentati indicano
elevata focalizzazione sul Sé e restringimento dell’interesse interpersonale, il che non si correla automaticamente ad un vissuto di sé positivo: i soggetti ipocondriaci, ad esempio, possono presentare un indice elevato anche in presenza di vissuti negativi della propria immagine. Analogamente è bene sottolineare
che punteggi inferiori alla media, di segno opposto ai precedenti (de-centramento), potrebbero descrivere
sia eccezionale sensibilità ed attitudine all’empatia, sia dispersione e superficialità nell’approccio affettivo/relazionale. La media per gli adulti è 0,39 (s = 0,11), cioè situata fra 0,28 e 0,50. 

Fig. 3. Distribuzione dell’Indice di Egocentricità (frequenze). Egocentricity Index distribution rates.

La Figura 3 descrive la distribuzione dei punteggi. Al quadrante in nero appartengono quei casi nei quali si osserva una polarizzazione delle dinamiche interne sul proprio Sé, sui conflitti, sulle problematiche relative alla salute o ad altre aree dell’esistenza. Relativamente pochi sono i valori medi all’interno del campione (appena 1/4), cioè sono pochi coloro che si rivelano capaci di gestire le relazioni con l’ambiente
(interpersonale e non solo) in maniera adeguata. La maggioranza, invece, sembra aver fatto proprio uno stile relazionale poco attento e rispettoso di sé e, appunto, marcatamente de-centrato: trattandosi di soggetti in sofferenza per gravi vicissitudini lavorative, sembra potersi ravvisare in essi una sorta di attenzione permanente sulle risposte altrui, uno stato di allerta per cogliere nell’altro il riflesso della propria identità ferita.

INDICE “S-CON” (COSTELLAZIONE SUICIDIARIA)
Più che un indice numerico è il conteggio, all’interno del protocollo, dei segni che compongono la costellazione
stessa 6. Non esistono valori normali, la norma è la mancanza di tutte le risposte critiche. I segni
più significativi della costellazione sono: 
– valore basso di (Somma H) % in protocolli con numero di H pure < 2;
– molti FC’ in protocolli con Es < Ea (o TRI.2 < TRI.1, purché la somma di colori sia ponderata) e
con almeno 1 risposta composita chiaroscuro/colore
(“Color Shading Blends”); 

– molte C pure in protocolli con CF + C > FC;
– P % (“popolari” o banali) elevato con numero grezzo di P < 3 oppure > 8;
– presenza di risposte di chiaroscuro tridimensionale (V);
– presenza di soggetti danneggiati, smembrati, deteriorati (“MOR”).

Fig. 4. Indice “S-CON”, incidenza dei singoli fattori. “SCON” Index, incidence rates of single factors.

La Figura 4 esprime la distribuzione dei suddetti fattori nel campione. Per ogni fattore viene indicato in
quanti soggetti esso è presente: appare evidente come i due segni più diffusi sono la presenza di contenuti
“MOR” e la scarsa frequenza di H pure.

Fig. 5. Indice “S-CON”, distribuzione dei fattori nei singoli casi. “S-CON” Index, distribution of factors in single subjects.

La Figura 5, invece, evidenzia con quale incidenza i singoli soggetti (indicati con sigle) forniscono risposte S-CON: due soli casi ne sono privi, laddove la maggior parte presenta almeno due segni. Se si tiene
presente che sono considerati normali i protocolli che non registrano alcun segno, è evidente come il nostro campione appaia sotto questo profilo degno del massimo interesse.
È utile anche riflettere su ciò che i singoli segni esprimono, soffermandoci in particolare sulle risposte “MOR” in quanto così frequenti nel gruppo (18 casi su 20): esse rimandano ad un’interiorità “danneggiata”, caratterizzata da vissuti di rovina, di ineluttabilità, di delusione profonda se non addirittura di frantumazione della propria stabilità.

Fig. 6. Distribuzione delle risposte “MOR”. Distribution of “MOR” Answers.

Il seguente schema (Fig. 6) ne approfondisce la distribuzione.

RAPPORTO FRA INTRAMACULARI (IM) E TRI.1 9 Non è un indice numerico ma, appunto, un criterio di
valutazione: esprime l’orientamento delle componenti aggressive all’interno della dinamica intrapsichica
del soggetto. Quando il TRI.1 è spostato verso i colori, la presenza di intramaculari indica negativismo,
oppositività; se invece è spostato verso le cinestesie, le Im indicano aggressività autodiretta e sentimenti
di colpevolezza/incapacità. Quando il TRI è coartato (0/0) le Im alludono ad una forte componente

Fig. 7. Qualità dell’aggressività, rapporto tra Intramaculari (Im) e TRI.1. Quality of Aggressiveness, relationship between Intramaculars (Im) and TRI.1.

inibitoria dell’aggressività associata a sentimenti di inadeguatezza e rinuncia (non infrequente l’ipocondria), mentre la presenza di un TRI ambieguale rimanda ad una instabilità di fondo dell’aggressività.
La Figura 7 descrive come le varie tipologie di TRI.1 si situino in rapporto all’incidenza di Im: tutti i soggetti introversivi (barre bianche) tendono ad avere un numero minore di interpretazioni Im, il che conferma la loro maggiore capacità di controllo dell’affettività nelle sue varie istanze. Peraltro è anche vero che c’è un elevato numero di soggetti francamente extra-tensivi (a strisce i casi più blandi, in nero i soggetti con somma delle C ³ 4) proprio nelle categorie con minore incidenza di Im: individui instabili, inquieti, certamente impulsivi, ma con scarse istanze aggressive evidenti. La loro sembra essere una instabilità profonda e radicata ma anche non esteriorizzata. Tale tipologia, nel grafico, appare numericamente prevalente nel campione.

RAPPORTO FRA F + % ED INDICE DI REALTÀ (IR)
Le F + % (= 75-90) descrivono la qualità dell’approccio cognitivo e il livello di stabilità della personalità, mentre l’indice di realtà nei suoi valori normali 5-7 esprime l’attitudine a sviluppare una buona sintonia cognitiva con la realtà 10. Insieme i due fattori rappresentano i principali parametri di riferimento per la valutazione della stabilità del soggetto, sia sotto il profilo della gestione delle difese razionali contro l’irruzione dell’emotività, sia in rapporto alla modulazione fra plasticità e realismo. 

La Figura 8 confronta, caso per caso, i due parametri: F + % (barre, riferite all’asse di sinistra), IR (indicatori in nero, asse di destra).
L’evidente dispersione dei dati ne dimostra la debole significatività ai fini della presente indagine: peraltro
solo in 1 caso su 20 sono normali entrambi i valori, il che è di per sé già degno di nota. Per il resto, è evidente
la tendenza a valori tendenzialmente alti di F + %: tranne 2 soggetti con eccessivo ribasso (40-50), tutti gli altri si collocano tra 70 e 100.

Maggiore dispersione nella distribuzione dell’indice di realtà: da 0 punti (caso A, peraltro con F + % normale, e caso N) ad 8 (valore massimo possibile, questa volta associato a F + % = 100, nei casi C e D). Emerge dunque, accanto alla tendenza di F + % verso i valori medioalti, una controtendenza dell’indice di realtà verso valori bassi. Parrebbe delinearsi un aspetto quasi “scissionale” nel gruppo di soggetti, i cui dinamismi mentali sembrano lacerati tra due opposte tendenze, marcata rigidità difensivo-razionale e labile capacità di approccio realistico: un mix che conduce ad una gestione di sé poco efficace ed adeguata.

Conclusioni

Il caso della “palazzina LAF” si presta ad innumerevoli riflessioni sotto svariati punti di vista. Di certo, quello che colpisce immediatamente è il tipo di scelta aziendale prescelta, ovvero l’adozione di una complessa strategia nella quale tutte le componenti tipiche del mobbing – isolamento, squalifica, demansionamento, minaccia ecc. – erano presenti, agite peraltro con modalità tali da porre, i più, in stato di evidente sofferenza psicologica. Una situazione, per come descritta univocamente dai soggetti visitati, quasi irreale nella sua gravità, che richiama alla mente esperienze di esclusione e meccanismi di vittimizzazione
proprie di sistemi asilari.

Operaio dello stabilimento siderurgico di Taranto - Credits Foto sito Michele Riondino

Anche in un caso come questo, tuttavia, nel quale l’azione mobbizzante è non solo chiara, diremmo per
certi versi “solare”, laddove indiscutibile è il ruolo svolto dall’agente psico-patogeno, non tutti coloro
che ne sono stati vittime sembrerebbero averne sofferto in modo evidente, tale almeno da lasciar tracce
apprezzabili nel tempo. Quanto meno solo una parte di essi ha deciso, a dispetto del clamore della vicenda
e dunque della possibilità, per ciascuno, di comprenderne i possibili risvolti positivi, di chiedere il riconoscimento di malattia professionale. Non sappiamo perché ciò sia accaduto, se i 25 lavoratori che hanno presentato domanda all’INAIL siano gli unici – fra i circa 70 stimati – ad aver sofferto psicologicamente o se abbiano avuto altre, ed egualmente valide, ragioni per non unirsi al gruppo.

Si può tuttavia stimare che, come peraltro molto spesso accade, il ruolo della personalità sia stato anche
in questo caso centrale, vuoi come capacità di adattamento e superamento della situazione di sofferenza
vuoi, al contrario, come fattore in grado di condizionare l’evoluzione del disturbo, di plasmarne l’espressività clinica, di modularne il decorso.
Per questa ragione abbiamo focalizzato la nostra attenzione sull’analisi della personalità, alla ricerca di
“segni” di sofferenza in qualche modo “comuni”, possibilmente correlabili all’azione mobbizzante sofferta.

Ebbene fra i soggetti del nostro studio dati comuni sono:
a) la tendenza diffusa (60% del campione) ad affrontare le situazioni in “stato di allerta”, in marcato
atteggiamento di autoprotezione: in altre parole, la tendenza ad impiegare il meno possibile le risorse affettive disponibili. Soggetti con difese presenti ma poco efficaci, soprattutto là ove occorre un esame di realtà;
b) nessun soggetto appare “travolto dalle circostanze”, a dispetto di quanto tendono a dire nei colloqui: proprio la consistenza delle difese permette loro di conservare il controllo della situazione, anche se non necessariamente in maniera ottimale o con equilibrio. La chiave di lettura più efficace sembra essere quindi non quantitativa (quanto controllo), bensì qualitativa (quale controllo), pur dovendosi ribadire che un anomalo
“controllo” possa comunque produrre risposte disadattive o sintomatiche;
c) i dinamismi mentali sembrano lacerati tra due opposte tendenze – marcata rigidità difensivo-razionale
e labile capacità di approccio realistico – un mix che indubbiamente espone ad una gestione di sé poco efficace ed adeguata, con inevitabili ripercussioni interpersonali;
d) l’indice di Egocentricità presenta una tendenza apparentemente paradossale: solo 1 soggetto appare
eccessivamente polarizzato su se stesso e sui propri problemi, che si tratti dell’identità sociale
o della salute, mentre ben il 50% presenta – sotto questo profilo – valori inferiori alla media, il che
indurrebbe ad ipotizzare una sorta di de-centramento patologico, una dispersione o, nei casi più gravi, una frammentazione dell’organizzazione cognitiva associata ad incapacità di centrarsi;
e) praticamente tutti i lavoratori sottoposti a visita (95%) presentano al Rorschach i principali segnali della costellazione suicidiaria, il che ovviamente non implica una prognosi comportamentale ma

Scene film Operaio Caterino Lamanna a colloquio con collega - Credits Foto sito Michele Riondino

semplicemente un “orientamento mentale”, una direzione: lo testimonia la diffusione delle risposte
con contenuti di disfacimento e danneggiamento (“MOR”: 75%, fra i quali 4 registrano un’incidenza decisamente elevata). Nel Rorschach l’attrazione non solo per il “macabro” ma anche per ciò che è incompiuto, danneggiato, deforme, esprime un viraggio depressivo della personalità, con profondi vissuti di incapacità ad arginare un sentimento di sfacelo interno ed esperienziale: per fare un esempio, in un caso (8 risposte
“MOR”) le tavole a colori sono interpretate come diverse istantanee che rappresentano i vari stadi della putrefazione di un corpo umano.

Complessivamente, dunque, nel campione sembra diffusa un’aggressività conflittuale e connotata da
sentimenti di rinuncia ed incapacità (65%), a fronte di 35% di soggetti francamente oppositivi: anche
questo sembra poco sintonico con i sentimenti di rabbia e le istanze rivendicative espresse nei colloqui. Il
che potrebbe far ipotizzare trattarsi di soggetti che, pur apparentemente battaglieri, tendono a “cedere”,
ritirandosi nel guscio protettivo delle difese da un lato e del ripiegamento su di sé dall’altro.

Lo stabilimento siderurgico di Taranto – Credits Foto  da FB di Michele Riondino  e Max Perrini

Ci sembra dunque che la nostra casistica esprima, sul piano dell’esame personologico condotto attraverso
il Rorschach, un quadro di tipo depressivo che parte da una profonda ferita narcisistica: soggetti sostanzialmente vulnerabili, con una fragilità intrinseca coperta da una elevata abitudine alla razionalizzazione,
con un Io rigido che incontra gravi difficoltà allorché deve gestire la complessità, la compresenza di istanze
diverse dentro di sé, la separazione, l’ambivalenza.

Lo stabilimento siderurgico di Taranto - Credits Foto Michele Riondino e Max Perrini

Il che potrebbe spiegare anche la tendenza alla “cronicizzazione” del disturbo, alla permanenza sintomatologica anche dopo che lo “stimolo” mobbizzante è stato rimosso, dopo che la situazione è stata
profondamente modificata (ad esempio con nuovo lavoro o pensionamento) perché il “danno” prodotto è
più profondo.

In queste persone il mobbing patito potrebbe aver agito, danneggiandola, la “identità lavorativa”
faticosamente costruita nel tempo, che a tutti gli effetti oggi è da considerare parte integrante dell’identità
personale, con effetti diversi – in taluni casi più gravi, o forse solo più duraturi – in relazione al gradiente di vulnerabilità personologica individuale.
Il che, ben inteso, non giustifica né sminuisce la gravità di quanto accaduto.

BIBLIOGRAFIA

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10 Bohm E. Manuale di Psicodiagnostica di Rorschach. Firenze: Giunti Barbera 1995.

La nostra nota

Abbiamo voluto contribuire con questo nostro racconto, evidenziando questo studio dei Ricercatori dell’Università di Bari, che ringraziamo, come ringraziamo il nostro concittadino Michele Riondino, che con la sua prima opera cinematografica da regista, nelle sale italiane dal 30 novembre u.s.  ha acceso i riflettori su un’incredibile vicenda umana, che ha fortemente compromesso  la vita dei lavoratori di quella fabbrica, che ancora oggi, nonostante sia sempre sotto l’attenzione dell’Italia, dell’Europa e del Mondo continua a diffondere veleni, che causano malattie e morte, soggiogando in tal modo un’intera città, un’incolpevole comunità ed il suo territorio condizionandone in tal modo lo sviluppo economico alternativo.

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