Capitolo 9 - Le bocche di ferro

Il sole picchiava duro sul quartiere rinominato “Cenere Nova”, riflettendo sui cassonetti come su scudi arrugginiti. Le Bocche di Ferro — così la gente li chiamava ora — giacevano ovunque, sparpagliate come carcasse di un’utopia sconfitta. Dovevano essere il simbolo della rinascita. Erano diventate altari sfondati di un culto fallito.
Thalassia si fece largo tra sacchi esplosi e pattumelle rovesciate, seguendo Zaira, giornalista d’inchiesta e membro attivo dei Radici Ribelli, la comunità che aveva trovato rifugio e scopo tra le stanze segrete del Palazzo Archita. Il suo ultimo lavoro, un’inchiesta senza sconti sulla gestione dei rifiuti in città, l’aveva portata nel cuore pulsante del degrado urbano. Ma la sua arma era la verità, e la sua battaglia non si combatteva solo con articoli: spesso la si trovava in prima linea nei clean-up organizzati dalle associazioni locali, tra guanti, pinze e sacchi pieni di rifiuti.
“Erano verdi, fotovoltaici, smart,” disse Zaira, indicando una Bocca muta. “Riciclabili al 100%, dicevano. Ma nessuno aveva previsto che anche la fiducia potesse diventare rifiuto.”
I cassonetti avrebbero dovuto riconoscere i cittadini tramite card, premiare i più virtuosi, impedire il conferimento oltre la capienza. Ma nella pratica…160 interventi su 140 cassonetti, per fotocellule difettose; forma a imbuto che impediva il riempimento corretto; tessere disattivate senza preavviso; portelloni forzati, rifiuti gettati ovunque.
“Il vetro almeno ha un suo peso. Il resto, come la politica, è tutto leggero e sbilenco.”
Thalassia notò un cartello, strappato a metà: TARANTO GREEN. IL FUTURO È GIÀ QUI. Sotto, una scritta a spray: Il futuro è nel cassonetto.
Zaira la condusse fino a un vecchio centro raccolta trasformato in “PuntoZerowaste”, una discarica di sogni in saldo. All’interno, sacchi aperti, bidoni rotti, e un manifesto piegato a metà: “Costo gestione rifiuti: 50 milioni di euro. +5 milioni rispetto all’anno precedente.” “Differenziata: -5 punti percentuali.” “Tari: in aumento. Servizi: in declino.”
“Eccoli i numeri,” sussurrò Zaira. “La differenziata è un fallimento. E noi la stiamo pagando, a peso d’oro.”
Poi arrivarono le pattumelle condominiali. L’ultima trovata: il porta a porta nei quartieri popolari, con la convinzione che bastasse cambiare il contenitore per cambiare la cultura. Ma i bidoni venivano riempiti di tutto, confusi, abbandonati per strada. Le vie dei Tamburi, un tempo già strette, ora soffocavano tra auto e plastica.
C’era chi, con rabbia rassegnata, lanciava le buste direttamente dai finestrini delle auto. Altri scaricavano vecchi armadi agli angoli delle strade, come se lo spazio pubblico fosse un’estensione del proprio sgombero domestico. Molti giustificavano questi gesti con lo stato della città, con il degrado già esistente. Ma la verità era più amara: per alcuni la raccolta differenziata era semplicemente un fastidio. Una scocciatura da evitare. Separare, distinguere, rispettare le regole richiedeva tempo, attenzione, volontà. E quella, in troppi, sembrava mancare.
“Il paradosso è qui,” disse Zaira, fermandosi davanti a una pattumella nuova, perfettamente etichettata ma già deformata dal peso e circondata da sacchi sparsi. “Un’amministrazione che spende milioni in contenitori, ma non un centesimo in educazione. Una cittadinanza che si lamenta del degrado, ma lo alimenta giorno dopo giorno.”
Eppure, in mezzo al caos, c’erano segni di resistenza. I clean-up delle associazioni locali — piccoli eserciti civici armati di buona volontà — riuscivano dove il sistema falliva: ripulivano, sensibilizzavano, creavano legami. Lì dove lo Stato non arrivava, arrivavano loro, con mani nude e spirito ostinato.
Thalassia annuì, silenziosa. Pensò a tutte le rivoluzioni fallite. Quelle fatte di plastica, slogan e carte prepagate. Quelle in cui si pretende di cambiare la forma senza toccare la sostanza.
“Puoi spendere milioni in tecnologia,” concluse Zaira, “ma se non investi in cultura, alla fine i bidoni parlano da soli. E raccontano una storia di resa.”
Mentre si allontanavano, Zaira si fermò a raccogliere un bicchiere di plastica lasciato in una fioriera. Lo guardò un attimo, poi lo infilò nello zaino.
“Ogni volta che vediamo una carta per terra e ci giriamo dall’altra parte, pensando ‘non l’ho buttata io’, stiamo scegliendo di perdere. Ma se questa città è anche nostra, allora lo è anche il suo decoro. E quella carta, in fondo, è nostra.”