Capitolo 15 - Thalassia

Il sole stava calando dietro i tetti storti della Città Vecchia. Lì dove tutto era cominciato.
Thalassia camminava piano lungo la ringhiera corrosa dal sale. Il vento le sollevava i capelli, come se il mare la riconoscesse. Come se sapesse che era tornata.

Davanti a lei, il Mar Piccolo brillava piano. Sembrava immobile, ma respirava.
Un respiro lento, profondo, come il battito di un cuore che non si è mai fermato davvero.

Ripensò all’Oasi e al biologo che le aveva mostrato le sorgenti. Alle api, alle piante che non conosceva. Al carrubo.
Ripensò a Elio, ai suoi semi, alla sua dolcezza incrollabile.
A Zambegandia, al dolore del Tara, alle croci di legno piantate nella terra.
Alla bambina mascherata, al quartiere ferito, alle parole scritte sui muri anneriti.
Ai delfini. Agli Isolani. Alla voce del mare.

E poi alla Carta.
Alle mani che avevano scritto insieme, alle voci che non cercavano più leader ma cerchi.
Ai volti che si erano illuminati.

Risalì verso la Biblioteca Segreta. Nessuno la vide entrare. Solo la polvere sembrò trattenere il fiato.
Scostò un vecchio volume e aprì un cassetto nascosto sotto una tavola di legno.
Vi ripose due piccoli fogli. Uno conteneva la parola “Bellezza”, l’altro “Noi”.
Non erano suoi.
Erano di chi avrebbe saputo cercarli.

Quando uscì, le campane della città battevano lente. Una nuova ora, un nuovo tempo.
Scese per i vicoli con passo lieve.

Incontrò una bambina che annaffiava una piantina in un barattolo, davanti a una saracinesca dipinta.
Una donna stava pulendo il marciapiede con una scopa fatta di rami intrecciati.
Un gruppo di ragazzi sistemava una panchina rotta, tra una battuta e un sorriso.

Nei quartieri anneriti erano nate scuole popolari.
Sui muri dove c’erano solo bestemmie ora fiorivano poesie.
A Zambegandia si tenevano assemblee mensili.
Gli Isolani accompagnavano i bambini in mare aperto per ascoltare i cetacei.
La Biblioteca Segreta non era più nascosta. Era diventata presidio.

Le stesse strade di sempre. Eppure diverse.

Ora, nelle stanze della città, sedevano le Radici Ribelli.
Non avevano abiti eleganti né discorsi pronti.
Ma conoscevano il dolore, la terra, i libri e i silenzi.
Erano diventati la nuova classe dirigente.
Ma non avevano dimenticato da dove venivano.

Sul piccolo molo del Mar Piccolo, Zane era ad attenderla.
Non disse nulla.
Solo le porse un piccolo fiore di campo, cresciuto tra le fessure dei mattoni.

«La bellezza salverà Taranto,» sussurrò.
«Ma non da sola. Servono mani, sguardi, cuore.»

Molti avevano pensato che fosse una ragazza. Una viaggiatrice. Una dissidente. Una figlia di Taras.
Ma la verità era più semplice. E più profonda.

Thalassia era la bellezza che resiste.
Era l’acqua che si adatta.
Era la voce che non si spegne.
Era il seme che germoglia, anche tra le rovine.
Era il fuoco sotto la cenere.
Era ciò che resta, anche quando tutto sembra perduto!

Thalassia guardò il fiore. Poi la città.
Zane restò in silenzio, mentre il sole calava dietro i tetti, tingendo il mare di oro e ruggine.
Una luce morbida scivolava lungo le pareti consunte degli edifici attorno, e in quel chiarore lento e dorato, Thalassia sentì un brivido nuovo, antico.
Non era più solo una testimone.
Era parte del disegno.
Parte della speranza.

Il suo nome, in greco, significava mare.
Forse era per questo che il legame era così profondo.
Forse era per questo che tutto conduceva lì.

Il Mar Piccolo, con la sua forma di otto, o forse d’infinito, restava lì,
a ricordare che ogni rinascita è possibile.
Che ogni seme può germogliare.
Che ogni coscienza può svegliarsi.

E forse, solo forse,
era lì che tutto sarebbe ricominciato.

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