Introduzione
Le luci fioche delle lampade arrugginite illuminavano appena le strade sconnesse della Città Vecchia. Il vento salmastro portava con sé l’odore del mare, ma anche quello acre dei rifiuti abbandonati agli angoli delle viuzze. Era una serata come tante altre, eppure qualcosa nell’aria sembrava vibrare diversamente.
Thalassia camminava lentamente, assaporando il silenzio sospeso della notte. Era andata in Città Vecchia perché amava passeggiare lungo la ringhiera, nella speranza di scorgere le pinne dei suoi amati tursiopi che si avvicinavano alla costa.
La vista dei delfini o il sole che tramontava su Mar Piccolo erano il suo rifugio, l’unico momento in cui riusciva a trovare un po’ di pace. Si fermò davanti alle Colonne Doriche, quelle sentinelle millenarie che avevano visto il tempo scorrere senza pietà su Taranto.
Le sfiorò con le dita e si sentì attraversata da un brivido. Era stata una giornata intensa, segnata dall’ennesima battaglia contro il dissalatore al fiume Tara, il progetto della nave rigassificatrice che minacciava il Mar Grande e l’ultimo decreto “Salva Ilva”, che di salvezza aveva solo il nome. La sua mente ancora frullava di rabbia e frustrazione: l’ennesima conferma che la politica continuava a calpestare la città, condannandola a un futuro di sfruttamento e degrado ambientale.
Un soffio di vento improvviso sollevò la polvere ai suoi piedi. Il cielo sopra di lei sembrava palpitare, le stelle pulsavano in un disegno che non riconosceva. L’allineamento dei pianeti di cui tanto avevano parlato i notiziari era al suo apice, e qualcosa in quell’istante si spezzò nel tessuto della realtà.
Un battito di ciglia, e il mondo attorno a lei cambiò.
Il profumo salmastro era diventato un odore stagnante di putrefazione e plastica bruciata. Le colonne erano ancora lì, ma corrose, spezzate, annerite da chissà quale sostanza tossica. Le strade intorno a lei erano ridotte a discariche a cielo aperto, topi enormi si muovevano indisturbati tra le macerie di edifici un tempo abitati. I palazzi, anneriti da fumi nocivi, mostravano crepe profonde come ferite mai rimarginate. I lampioni erano spenti o ridotti a carcasse vuote, e dalle grate dei tombini saliva un fumo verdastro dall’odore nauseabondo.
Taranto. Ma non la sua Taranto.
Un senso di nausea le attanagliò lo stomaco. Provò a muovere un passo, ma il suo piede affondò in un impasto molliccio di rifiuti organici e fango. Sentì una voce in lontananza: rauca, spezzata, un lamento quasi animale. Si voltò di scatto, il cuore in gola.
Una figura avanzava nel buio, trascinando un sacco nero sulle spalle. L’aria era satura di un’atmosfera opprimente, come se l’intera città fosse avvolta da un incubo senza fine.
Thalassia non sapeva ancora come fosse finita lì, ma una cosa era certa: doveva trovare il modo di tornare indietro. E, se c’era un modo, doveva scoprirlo prima che fosse troppo tardi.
Si voltò e il suo sguardo si posò su un cartello arrugginito, storto e incrostato di sporcizia. Le lettere, ancora leggibili sotto la patina di degrado, la colpirono come un pugno allo stomaco:
TARANTO CAPITALE DI DEGRADOLAND.
