Capitolo 4 – L’ acqua rubata
La notte all’Oasi delle Antiche Sorgenti era stata silenziosa, ma il sonno di Thalassia agitato. C’era un pensiero che continuava a tormentarle la mente, un nome sussurrato durante la cena dalla voce di alcuni ragazzi: Tara.
All’alba, prima ancora che la comunità si svegliasse del tutto, si mise in cammino. Nessuno le fece domande. Le bastò uno sguardo con Zane, che le porse un sacchetto con un pezzo di pane e una borraccia. “Segui il sentiero tra i fichi d’India. Ti porterà dove il fiume era.”
La strada era lunga e polverosa. Il sole saliva rapido, e con esso il caldo. Ma più si avvicinava alla zona segnata sulle mappe che aveva trovato nell’Oasi, più l’aria cambiava. Era pesante, stagnante. Odorava di ruggine e malinconia.
Quando giunse in vista dell’alveo del fiume Tara, si fermò. Davanti a lei non c’era che un solco secco, screpolato, pieno di erbacce e bottiglie vuote. I rami degli alberi si protendevano verso il vuoto come mani che chiedono perdono. Pozze d’acqua stagnante, coperte da un velo di alghe morenti, erano tutto ciò che restava di quello che un tempo era un corso vivo.
“Un tempo ci nuotavo fino a novembre,” disse una voce.
Thalassia si voltò. Su una roccia poco distante sedeva Battista, un uomo dagli occhi limpidi, la pelle bruciata dal sole e un vecchio costume scolorito. Nonostante l’età, aveva un’aria forte, resistente, come certi alberi che non si piegano.
“Il Tara era freddo e limpido. C’erano lontre. I bambini venivano qui a giocare, le donne recitavano con trasporto il rosario alla Madonna del Tara. Adesso… vedi solo fango e ricordi.”
Thalassia si sedette accanto a lui. “Cosa è successo?”

“Il dissalatore,” sputò Battista, come se la parola gli bruciasse la lingua. “Doveva salvarci dalla crisi idrica. Hanno scavato, deviato, aspirato. Hanno succhiato via il sangue del fiume. E poi? Poi l’hanno lasciato lì. Un rottame. Non produce, non filtra, non serve. Ma intanto, il Tara è morto.”
Il silenzio tornò a cadere tra loro. Solo il frinire delle cicale e il vento tra i rovi.
Più avanti, lungo l’argine spezzato, un gruppo di ragazzi stava sistemando dei cartelli di legno. Uno recitava: “Il fiume è di chi lo ama.” Un altro: “Non c’è acqua, ma c’è ancora la nostra voce.”
Le Sentinelle del Tara, come si facevano chiamare, erano giovani, alcuni poco più che adolescenti, venuti dalla comunità di Zambegandia. Tra loro c’era chi studiava biologia, chi lavorava in un vivaio, chi faceva l’insegnante, chi l’artista. Ma tutti avevano una cosa in comune: amavano quel fiume come una creatura viva.
Le raccontarono del dissalatore, delle promesse politiche, dei cantieri aperti in pompa magna e abbandonati nel silenzio. “Dicevano che ci avrebbero dato acqua potabile,” disse uno di loro, “ma hanno solo risucchiato quella che avevamo.”
“La chiamavano transizione ecologica,” aggiunse un altro, “ma era solo greenwashing con i soldi pubblici.”
Poi una ragazza, Lara, si avvicinò. Portava un binocolo al collo e uno sguardo fiero negli occhi. “Io ci vengo ogni mattina, a fare birdwatching. Mi chiedo ogni volta quanti siano scappati, quanti siano morti in silenzio.” Lanciò uno sguardo di rimpianto all’uomo che le era accanto. Dallo sguardo di complicità si intuì fossero parenti, forse padre e figlia. Si presentarono. Lara era una scienziata e un’attivista, con un’eredità morale sulle spalle.
“Mio padre,” disse, “fu uno di quelli che si opposero alla deviazione del Tara. Era convinto che togliere l’acqua fosse come togliere l’anima a questo territorio. Lo prendevano in giro. Dicevano che esagerava. Ora non dice più nulla. Guarda, e basta.”
Thalassia ascoltava in silenzio, la gola stretta.
Il gruppo la invitò a seguirli. Camminarono insieme per un tratto fino a una radura dove si ergeva un’enorme struttura abbandonata: l’Impianto di Recupero Idrico del Tara. Il dissalatore.
Era spettrale.
Le tubature arrugginite uscivano dal terreno come nervature esposte. Le finestre erano rotte, i muri coperti da graffiti. Alcuni li avevano trasformati in arte, altri in sfogo. Un murale gigantesco ritraeva un bambino che beve da una bottiglia vuota, sotto la scritta: “Ci avete tolto l’acqua, ma non la sete.”
“Qui dentro,” disse Lara, “non è stato più prodotto un solo litro d’acqua da quando le piogge sono diminuite. E più le piogge scarseggiavano e più il Tara si prosciugava. Alla fine hanno costruito il nulla…Ma è costato milioni.”
Thalassia si avvicinò lentamente. Toccò con le dita il cemento spaccato. Sembrava emanare ancora il calore delle menzogne.
Fu allora che vide Battista, laggiù, dove una pozza d’acqua ancora resisteva. Si stava spogliando con lentezza. Entrò nell’acqua che non c’era più e fece come per immergersi, con la delicatezza di un rito rimasto nel tempo.
Thalassia si voltò verso i ragazzi delle Sentinelle. Erano stanchi, sudati, ma sorridevano. Uno di loro accese una piccola cassa: una vecchia canzone popolare iniziò a suonare. Ballarono. Sorrisero. Le guance rosa di una ragazza si segnarono di lacrime.
E Thalassia capì.
Il fiume era stato derubato, sì. Violentato, svuotato, tradito. Ma non era morto.
Finché c’era chi lo ricordava, chi ci tornava, chi lo difendeva, il Tara aveva ancora una voce.
E forse, anche una speranza.