Capitolo 6 - La bellezza ritrovata

Thalassia si aggirava tra le strade deserte di Degradoland, il cuore appesantito dalla desolazione che la circondava. Ogni passo risuonava sul selciato incrinato, mentre il vento sollevava vortici di polvere e detriti. Le facciate degli edifici, un tempo vibranti di vita e colore, ora si presentavano come scheletri vuoti, testimoni silenziosi di un passato dimenticato.​

Si fermò davanti a ciò che restava di una libreria. Le vetrine infrante lasciavano intravedere scaffali vuoti e pagine strappate sparse sul pavimento. Un tempo, quel luogo era stato un rifugio per menti curiose, un santuario di storie e conoscenza. Ora, non era che un guscio vuoto, eco di un’epoca svanita.​

Non sapeva se quel mondo l’avesse scelta o se fosse stata lei, inconsciamente, ad aprire un varco nel tempo. Ma ora che era lì, tra le rovine bruciate di una città che portava il nome della sua — ma ne era solo un’ombra spietata —, Thalassia sentiva che nulla era accaduto per caso.

Camminava da ore. I luoghi le erano familiari eppure irriconoscibili. Ogni pietra sembrava gridare un ricordo, eppure il suo passo non si fermava. Il pensiero del ritorno — tornare a casa, alla sua Taranto vera — la ossessionava come un ritornello senza strofa. Ma più passavano i giorni, più quel desiderio si era intrecciato a un dubbio sottile: e se il vero ritorno non fosse fuga, ma comprensione?

Era partita dalla Città Vecchia con le mani in tasca e il cuore pieno di malinconie. Ora, dopo gli incontri, i silenzi e le lotte, si ritrovava con lo zaino più pesante — non di cose, ma di volti, parole, eredità.

Zane le aveva insegnato la semplicità della resistenza. “La brace sotto la cenere esiste sempre”, le aveva detto, porgendole una manciata di bacche con lo stesso rispetto con cui si porge un destino. Quelle parole l’avevano accompagnata come un incantesimo per giorni interi, fino a diventare una verità nuova: la bellezza non va cercata altrove. Va accesa, dove sembra spenta.

E poi c’era stato Elio, il ragazzo dai gesti lenti e dagli occhi da carrubo. Custodiva semi come si custodiscono segreti, e le aveva lasciato in mano un dono — piccolo, scuro, pieno di possibilità. “Non è da piantare subito,” le aveva detto. “Ci vuole il momento giusto.” Quel seme le bruciava ora nella tasca come una promessa che non poteva ignorare.

Il biologo del mare le aveva mostrato la resilienza sommersa. Le aveva parlato della Cimodocea che ondeggiava ancora tra i pali della mitilicoltura, delle comunità invisibili che continuavano a filtrare, purificare, trattenere vita nonostante tutto. “Il mare ricorda anche quando gli altri dimenticano,” aveva detto.

E così, mentre Thalassia si fermava sulla soglia di un edificio crollato — un tempo una scuola, ora tana di rovi e scritte — si rese conto che qualcosa era cambiato. Aveva visto con i propri occhi che, anche nei luoghi più degradati, esistevano sacche di resistenza, angoli di bellezza preservata con amore e dedizione.​ Non era più l’estranea spaesata che vagava alla ricerca di risposte. Era parte di quel mondo, anche se temporaneamente. Era stata accolta, ascoltata, persino amata in qualche modo.

Provare a tornare indietro — al suo mondo, alla sua Taranto — era ancora un pensiero presente, ma ora le sembrava incompleto. Come se, prima di poter tornare davvero, dovesse fare qualcosa qui. Come se l’esperienza stessa fosse una forma di preparazione, una lente attraverso cui imparare a vedere la bellezza ovunque. Non quella patinata, non quella da brochure e cartelloni. Ma la bellezza che resiste sotto le unghie, tra le crepe, nelle voci rotte.

“Restare qui non è una prigione,” sussurrò tra sé. “È una prova.”

E in quel momento lo capì. Non solo avrebbe soffiato sulla brace, ma avrebbe acceso un fuoco. Uno capace di scaldare, illuminare e indicare una strada. Un fuoco come quello cantato da chi amava quella città con la sua stessa ostinazione. Come quel titolo inciso in vinile da un figlio di Taranto: “Ho acceso un fuoco”. E lei avrebbe fatto lo stesso.

Perché forse, pensò, il fuoco vero non è quello che brucia le macerie. È quello che le trasforma in cenere fertile.

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