Capitolo 8 - La biblioteca segreta

La pioggia era cessata da poco e l’asfalto ancora fumava sotto i primi raggi del sole, come se la città stesse tentando di scrollarsi di dosso l’odore di marcio. Thalassia camminava lungo via Duomo, le scarpe umide e la mente affollata. Decisa e determinata a tornare in un luogo che la stava richiamando da tempo. Il palazzo degli Uffici.
Percorse lentamente il porticato centrale del vecchio Palazzo. Non era la prima volta che vi metteva piede — ricordava bene la sensazione provata giorni prima, durante quell’incontro surreale con Lucia Doria, eppure percepiva qualcosa di diverso e vibrante.
Sembrava assurdo. Una biblioteca, in un mondo che ormai sembrava aver rinunciato alla cultura, alla memoria, perfino al futuro. Eppure, qualcosa dentro di lei le diceva che doveva entrare. Da giorni sentiva quel nome mormorato nei vicoli, scritto su biglietti infilati tra i libri abbandonati o sussurrato da anziane venditrici di fichi d’India come una formula magica.
Quando arrivò davanti al portone, lo trovò socchiuso. Sporse la testa. L’atrio era in penombra, l’odore di carta antica si mescolava a quello del muschio. Fece per bussare, ma una voce la precedette.
«È già entrata, tanto vale che salga.»
Sulla scala comparve un ragazzo con un riccio ribelle e una felpa consumata con su scritto: «I confini li disegna chi ha paura».
«Benvenuta nella Biblioteca Segreta.»
Si chiamava Milo, e non sembrava affatto sorpreso di vederla. Le fece strada tra corridoi e scaffali fino a un salone dove il tempo sembrava essersi fermato.
Una giovane dai capelli ricci, raccolti in una matita colorata, le fece cenno. «Se cerchi i Radici Ribelli, sei nel posto giusto,» disse, aprendole un varco tra pile di libri, poster e zaini.
La biblioteca sembrava abbandonata a un occhio distratto. Alcune sezioni erano crollate, altre soffocate dalla polvere e dal silenzio. Ma era solo una maschera. In quell’ala nascosta, tra scaffali ricurvi e tavoli di legno graffiato, viveva qualcosa di nuovo. Una fucina.
C’erano computer, piantine di basilico sui davanzali, una stampante 3D accanto a una macchina da scrivere. E decine di ragazzi e ragazze, chini su fogli, monitor, mappe, idee.
«Benvenuta nella zona franca del pensiero,» disse Milo, sorridendo.
Leda, con una penna appuntata dietro l’orecchio, le porse una tazza di caffè. «Qui nessuno viene per caso. Se sei arrivata fin qui, vuol dire che hai domande giuste.»
I Radici Ribelli erano nati così: un gruppo di giovani, laureati, alcuni rientrati dopo anni fuori, altri mai partiti. Venivano da Taranto e dai paesi limitrofi, stanchi di vedere bruciare il proprio futuro tra inerzia e rassegnazione.
Avevano scelto la biblioteca come quartier generale. «In un paese dove la cultura è degradata,» diceva sempre Donato, il più silenzioso di tutti, «nessuno pensa che la rivoluzione possa iniziare da qui.»
La loro missione era chiara. Lo chiamavano Manifesto, e non era solo scritto: lo vivevano.
1. Dare voce ai giovani rimasti.
2. Fare rete, sempre.
3. Contrastare l’emigrazione con opportunità reali.
4. Agire. Non dichiarare.
Tra le mille iniziative che portavano avanti, ce n’era una che brillava più delle altre: UniMed.
Milo tracciò con il dito una linea immaginaria sulla cartina sbiadita affissa al muro. Non c’erano confini, solo coste, isole, porti. Marsiglia, Salonicco, Tunisi, Palermo, Barcellona.
«UniMed non sarà mai un’università chiusa tra quattro mura. È pensata come una rete viva, in movimento, dove ogni città del Mediterraneo può diventare aula, campo, biblioteca. Taranto non è la periferia di nulla: è la finestra sul Mare Nostrum.»
Leda intervenne con lo sguardo acceso: «Come il mare unisce i popoli, così UniMed unirà saperi, lingue, culture. Un Erasmus senza tempo, un Grand Tour che non finisce mai. La conoscenza non deve avere dogane.»
«E poi,» aggiunse Hakim, «chi resta qui non è più solo. Saremo parte di un’alleanza di cervelli ribelli. Perché se i confini li disegna chi ha paura, noi rispondiamo con mappe nuove, tracciate dal desiderio di restare, imparare e ricostruire.»
Hakim, cresciuto tra due lingue e nessun confine, parlava con una calma che sapeva di certezza.
Thalassia ascoltava. C’era qualcosa di profondamente vero in quel disordine luminoso. Per la prima volta, il futuro non le sembrava un miraggio, ma una costruzione collettiva.
Forse, pensò, la vera rivoluzione parte dal sapere. Ma solo se si ha il coraggio di sporcarlo di terra, di mare e di vita.
«Siamo troppi per essere ignorati, e troppo preparati per essere zittiti,» disse infine Hakim, mostrando a Thalassia un volantino in preparazione: La Notte delle Idee Ribelli.
Era come se, sotto il degrado, qualcosa stesse davvero germogliando.
Thalassia rimase lì per ore. Ascoltò, annuì, rise. Alla fine, mentre il sole tramontava sulle cupole della città vecchia, uscì dalla biblioteca con una certezza nuova: Degradoland aveva anticorpi. Silenziosi, ostinati, determinati.
E il futuro… forse era già cominciato.